Elisa La Boria, Breaking Light, 2020

Testo di Ilaria Franceschi

Indicata da un’insegna luminosa su un alto muro di mattoni bianchi, una porta si apre sulla sala vuota di un cinema. L’artista-osservatore assume un punto di vista situato, soggettivo e mutevole, ma privo di incidenti, fluido, incorporeo. La sua è una riflessione libera da connotazioni estetiche, intimistiche o sociologiche, che, superando la sua matrice modernista, si fa parziale e critica.

Elisa La Boria, pittrice di formazione, trasforma il software 3D in uno strumento di precisione ottica che riconduce spazi e oggetti alla loro forma essenziale. Mette così in atto un processo di simulazione che, privo di una connessione referenziale con la realtà, tende a sovvertirne la rappresentazione 1 . Breaking light è un viaggio a tre tappe, a circuito chiuso, intorno ai modi in cui i linguaggi tecnologici dell’arte contemporanea – il cinema, le stanze immersive e il videomapping – rappresentano e modificano i meccanismi di fruizione del mondo. In un’indagine sul “come”, nata dalle riflessioni degli Impressionisti e delle avanguardie storiche e rielaborata in una visione postmoderna, il video analizza i media artistici al fine di decostruire il sistema simbolico da essi veicolato, sedimentato in secoli di immagini. “Il medium è il messaggio” 2 e l’unica narrazione possibile è ciclica e metalinguistica.

D’altra parte, la ricerca dell’artista, approfondita nel recente periodo di confinamento domestico, ha origine nell’esperienza delle distorsioni percettive provocate dagli schermi dei dispositivi multimediali, finestre abbaglianti capaci di trasfigurare i contesti reali: è la metafisica della tecnologia. L’opera, infatti, si sviluppa a partire da due concetti indissolubilmente legati: il confine, interpretato quale limite eminentemente materiale da un solido muro di mattoni bianchi; la luce creativa, l’unica entità capace di distruggerlo generando nuove dimensioni spazio-temporali. Quest’ultima è indagata nella sua contraddizione, per cui esiste soltanto in relazione a un supporto fisico e al contempo costruisce le forme del mondo.

Dubitando delle coordinate tradizionali dell’esperienza, Breaking light demistifica il rapporto tra la percezione e l’esistenza ontologica della realtà, rendendone evidente la natura equivoca. Si interroga sulle modalità di conoscenza e rappresentazione e agisce a livello sensoriale per stravolgere il processo univoco di significazione proprio dell’immaginario comune.

A ben vedere, il video delinea un percorso critico attraverso tre categorie dell’esistenza umana puntualmente messe in discussione: l’enigma della percezione ottica, le implicazioni metafisiche dell’esperienza multisensoriale e le limitazioni del sistema culturale dominante. Al carattere problematico di ciascun ambiente corrisponde un peculiare effetto di straniamento, alimentato dal sottofondo sonoro. Registrati dall’artista in contesti urbani e naturali e modificati in post-produzione, i suoni conservano un legame impercettibile con la realtà e diventano puramente esperienziali, aprendo nuove possibilità di immaginazione.

Nella sala cinematografica, il supporto materico dello schermo scompare nella luce ipnotizzante di un inganno ottico, citazione diretta del Cinema anemico di Duchamp. Il movimento rotatorio, creando un’ambiguità tra lo sfondamento prospettico e l’avanzamento verso lo spettatore, scardina a colpo d’occhio due capisaldi del cinema e della storia dell’arte: la bidimensionalità dello schermo e della superficie pittorica e la resa illusionistica della finestra albertiana.

In una spirale disegnata da segni verbali, una notizia dell’ultima ora svela con ironia la sua sensazionale atemporalità, mentre un rombo continuo e dissonante disturba la visione. La stanza immersiva elabora una simulazione a più livelli: una volta celeste, la sua imitazione in un planetario e la sua rappresentazione simbolica nella storia dell’arte. La cupola stellata, infatti, è un omaggio ai mosaici del mausoleo di Galla Placidia, tra i primi esempi di smaterializzazione attraverso la luce. Rincorrendosi sulla superficie o nella profondità dello spazio cosmico, le linee luminose rinnovano il carattere enigmatico dell’esperienza.

Memore delle installazioni laser di Robert Henke, l’ambiente richiama il coinvolgimento multisensoriale del fruitore. Lo scroscio distorto delle onde marine concilia l’immagine avvolgente e rilassante dell’universo, evocando sensazioni primordiali e trascendenti. Nell’ultima stanza, la tecnica digitale del videomapping è utilizzata nella forma sintetica e antiillusionistica dei suoi esordi. Arricchita delle suggestioni dell’opera di Pablo Valbuena, la proiezione non evoca drammaticamente spazi tridimensionali, ma sottolinea il carattere peculiare del suo significante: la superficialità. Nel paradosso di un’architettura bidimensionale, mutevole, liquida, il confine murario non esiste finché non viene costruito dalla luce, mentre il suono sfuma nel silenzio del disegno luminoso.

Al termine di un viaggio in cui la forza creativa della transizione accende i luoghi di passaggio di una luce ardente, lo sguardo errante dell’artistaspettatore assume un punto di vista centrato, focalizzandosi all’entrata di un tempio classico in prospettiva centrale. Quel che accade dopo è lo stravolgimento del principale dispositivo ottico della storia dell’arte occidentale, un’infrastruttura culturale che implica una modalità gerarchica ed esclusiva di interpretazione.

Il non-senso di questo percorso ciclico e senza meta, al contempo distaccato e coinvolgente, ironico e perturbante, risiede nella sua ambiguità sovversiva, che decentra e moltiplica i punti di vista. Soltanto una sensibilità mutevole, critica e – in senso duchampiano – indifferente è capace di aprire infiniti varchi in prospettiva, alimentando l’infinita ricerca. Se lo sguardo si inoltra in profondità, attratto da un unico folgorante punto di fuga, al suo posto trova una porta chiusa, indicata da un’insegna luminosa su un alto muro di mattoni bianchi.

NOTE

1 Cfr. H. Foster, Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia, Milano, 2006.

2 M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, 1964, trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1967.

Bibliografia:

Falcinelli Riccardo, Figure. Come funzionano le immagini dal Rinascimento a Instagram, Einaudi, Torino, 2020

Foster Hal, Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia, Milano, 2006

McLuhan Marshall, Gli strumenti del comunicare, 1964, trad. it. Il Saggiatore, Milano, 1967

Subrizi Carla, Introduzione a Duchamp, Laterza, Roma-Bari, 2008

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