Nuti – Scarpa (È questa la prima o l’ultima notte sul nostro pianeta?), doppia personale di Lulù Nuti e Delfina Scarpa alla galleria Alessandra Bonomo, è una mostra dove due giovani artiste confrontano i loro rispettivi linguaggi e sperimentano un proficuo dialogo fra scultura e pittura. In questa prima occasione di riflessione mi soffermo sulle opere della seconda artista, osservando quella che sarà la materia speculativa di questo primo approccio all’esposizione. Vedo foreste invisibili, fatte di pennellate leggere quasi come un soffio, un sussurro nel vento fra le fronde cangianti e fluorescenti di una arcadia psichedelica.
Mi racconta di un motivo a lei molto caro, quello dell’hortus conclusus. In passato ha realizzato un’opera precisamente con questo titolo. Era una tela di grande formato, seducente anch’essa per la dimensione sottilmente onirica, lisergica – quasi attraverso l’emanazione di un’indefinibile aura. Davanti a tutte queste visioni sfumate e fiabesche di spazi verdi aurorali e ambigui, che ci sembrano aperti e addirittura sterminati, penso al giardino medievale, che rimanda a una forma spaziale molto dissimile. Infatti, se osserviamo l’opera nella sua materialità, tenendo al contempo presente l’immagine di un giardino medievale curato e raccolto, si crea una fertile forma di integrazione di due opposti – apparentemente contraddittori – che espande e confonde le possibilità immaginifiche dell’opera, come se essa si amplificasse e si sfaldasse in questo processo, vaporizzandosi come nebbia o un’onda di profumata umidità generata dalla freschezza di una pioggia primaverile. L’hortus conclusus propone l’idea di uno spazio chiuso, privato; un giardino che rimanda alla sacralità di ambienti monastici dove barlumi di vegetazione e fiori segnano la cerniera fra l’esteriorità selvaggia della natura e una sua versione intima e addomesticata, simbolizzata e allegorizzata in un’iconografia pittorica che associa questo motivo figurativo alla Madonna e alla verginità.
C’è una certa purezza, quasi pagana, ma non c’è nulla di simbolico, né quanto meno di descrittivo nei lavori presentati. Richiamando la poetica di Paul Klee, teorico molto caro a Scarpa, l’artista parla di una ricerca fortemente evocativa nel proprio lavoro, e tale rimando appare particolarmente pertinente se associamo tale asse di ricerca – che si muove attraverso motivi boschivi e silvestri – alla metafora dell’albero presentata da Klee nella celebre conferenza del 1916, in cui riflette sul fare artistico e sulle sue virtualità immanenti. Come questo albero fatto di parole e concetti, la ricerca di Scarpa si muove lontano dal luogo della referenza di questa natura: mi dice che non potrebbe mai vivere in campagna, a Sermoneta e Ninfa, luoghi della sua infanzia, e che ha bisogno come di allontanarsi da quei paesaggi per rievocarli e riprodurli, rigenerarli grazie a una distanza fisica che è anche mentale, fatta di memoria e ricordo, di oblio e reminiscenza. L’albero stesso risulta come una sorta di soggetto “desoggettivato” in queste opere, motivo visibile e invisibile della sua pittura, che elegge il rosa quale tinta dominante – quasi il primo o l’ultimo bagliore di un’alba impossibile -, un rosa dalla tonalità acida e ipnotica.
Soffermandomi su questo colore, ripenso a un testo dove questo svolge un ruolo di protagonista: è “Il rosa Tiepolo” di Roberto Calasso, trattazione dove tale nuance, nominata così da Proust all’interno della Recerche (dove funge da trait d’union fra tutte le donne del protagonista), esprime in se tutta l’essenza della ricerca artistica tiepolesca, e infatti lo scrittore non cita mai nessun’opera specifica, lasciando al colore omonimo il compito di evocare tutta la ricchezza e la varietà del suo immaginario pittorico, delle sue implicazioni anche oscure ed esoteriche. Il rosa “riscattato” dal pittore veneziano, il suo potenziale visionario, è un colore spesso associato a un immaginario di mondana superficialità, carattere di quel Settecento edulcorato che riporta in auge atmosfere arcadiche solo per mettere in scena un universo idillico esistente oramai solamente in una finzione falsamente onirica, rêverie di una campagna che è precisamente quella laziale, la stessa di Scarpa. Nella leggerezza evocativa delle opere esposte, aliene a ogni sorta di compiacimento lezioso, questo rosa aereo e sublime suggerisce una lontananza remota e al contempo ideale che non rinvia ad alcunché di stabile e predefinito, come una pluralità di sentieri segreti nella foresta, tracciati dal passo agile di una ninfa o da un’altra figura mitica, nella trama di un sogno dalle sfumature estatiche che può improvvisamente rovesciarsi in un incubo allucinato.
Tutte le fono sono di Simon d’Exèa