Sergio Lombardo. Dai Quadri ai Superquadri. 1961-1966, Installation view at 1/9unosunove, photo credit: Giorgio Benni
Ombre mediatiche, le possibilità di una pittura negativa.
“Gesti tipici” è una serie di pitture che immortala principalmente “grandi” figure politiche che la rappresentazione dei media e l’immaginario collettivo hanno trasformato in icone. Le loro rispettive identità sono evidenti, appaiono immediatamente riconoscibili nonostante la resa che li riduce a mere silhouette, attraverso ciò che il profilo perduto di quei pochi elementi caratteristici emergenti lascia trasparire. Una figurazione asettica, ma non robotica, meccanizzata; in quanto risulta evidente la presenza del corpo e della mano dell’artista, facendo intendere una freddezza programmatica della rappresentazione che interessa uno spazio umano, e quindi visitabile, dialogabile. Non c’è il bianco assoluto e nemmeno il nero assoluto, le pennellate si vedono così come la forma disfatta del colore in espansione, la compattezza cromatica che si scioglie come inchiostro immerso in una pozzanghera grigia, una superficie fluttuante e coprente cupa e diseguale.
Possiamo interagire con questi quadri di soggetti iconici in maniera dinamica e personalizzabile così come con i Superquadri? Oggetti infinitamente componibili e scomponibili che letteralmente occupano lo spazio dell’abitare riplasmandolo. Le icone sono fatte per una forma di comunicazione privata, intimista; sono dei feticci o delle porte aperte sulla realtà trascendente, forse entrambe le cose insieme. Ma qui non ci troviamo inscritti in questa logica figurale, e nemmeno in quella “cultuale” dei divi delle pop art e della società dello spettacolo. Le dimensioni dei gesti tipici eccedono la proporzione che consentirebbe un dialogo a tu per tu, così come l’appropriazione feticistica, spiritualista o capitalista. Solenne ma non ieratico, la risonanza del gesto tipico è eloquente così come è ampia la misura della superficie materiale del quadro, che evoca le grandi tele della pittura di storia. Un tempo la legittimazione del genere e il diritto di occupare tanto spazio nasceva dal fatto di esprimere un contenuto elevato, nobile. Qui la storia c’è e non c’è. È sbiadita, cancellata, anche se non completamente. Resta il gesto, la sua valenza affermativa, nella generale negazione di ogni valenza descrittiva e didascalica. Ma questo svuotamento priva tale azione dalla sua connotazione retorica e autoritaria: non annuncia nulla, né esprime nulla di viscerale o latente, popolaresco o personale. Che il gesto sorga spontaneo o studiato, la sua memoria parla un’altra lingua.
La mimica degli attimi catturati dagli scatti che fungevano da supporto per queste rappresentazioni congelava un momento decisivo, quello dove l’impeto scomponeva le fisionomie, una significativa concessione all’aplomb generale, per cadenzare la sintassi del discorso, sorta di punteggiatura corporea. Politici e leader di vario tipo dovevano sostenere con la loro estetica un’aura di rispettabilità, e gli uomini di questa serie nel loro essenziale bianco e nero evocano un grado zero dell’espressività coloristica e luministica che fa da pendant alla serietà e alla professionalità della tenuta elegante, giacca-camicia-cravatta, che l’etichetta prescrive per tali occasioni. Negli anni Sessanta i codici di vestiario erano sicuramente più rigidi che adesso, ma la logica di questa congiunta adesione ad uno standard di vestiario e ad una tradizionale pittorica minimale, di marca modernista, presenta una sbavatura. Senza produrre una regressione del segno (attraverso la violenza della cancellazione iconoclasta), ma neanche formalizzando la medesima espressività segnica (enfatizzando il potere simbolico della rappresentazione), la pittura finisce per ricalcare la figura come un’ombra.
Sfumare la soggettività dell’immagine, stemperarla come con l’inchiostro, non vuol dire eliminarla, in quanto la traccia che resta è il suo indissolubile legame con il referente. Tutti riconosciamo John F. Kennedy o Mao Tse Tung, si diceva, in un unico colpo d’occhio. Ma se tale assenza di elementi figurativi e descrittivi non costituisce un problema per portare a compimento questa semplice operazione, vedendo le immagini capiamo nondimeno che c’è qualcosa di più in questo esserci qualcosa in meno, che tale sottrazione aggiunge qualcosa di imprecisato. L’ombra, nella sua strutturale incertezza, lascia il margine per un’apparizione. La sagoma, infatti – benché connotata – è abbastanza generica per essere “riempita” da nuove identificazioni quando uno spettatore si affaccia a questo negativo, di nuovi confronti/rispecchiamenti/differenziazioni. Non si tratta di empatizzare con le immagini o di riconoscere all’interno di quel nero delle suggestioni familiari. La poetica dell’eventualissimo di Lombardo parla chiaro, ribadendo la centralità dell’incontro con l’altro, inteso in senso plurale e desoggettivato, come motore essenziale di un processo creativo che rinnova la struttura dell’opera, la sua virtualità relazionale. Lo spazio del discorso politico, della propaganda, della conferenza è gerarchizzato e unidirezionale, ma anche aperto, per raggiungere quanti più pubblici possibili; la comunicazione si estende oltre le piazze nelle case e nell’inconscio delle persone. Così anche le ombre, che all’aperto sono più visibili e dinamiche, elastiche, adattandosi ai movimenti, alla luce, agli ostacoli che le morfologie del paesaggio presenta.
Queste icone sono dei monumenti anonimi che sottolineando quando c’è di transindividuale nell’apparente tipicità di un gesto, quanto è spersonalizzante e spersonalizzata l’immagine di un volto celebre che la presunta storia con la s maiuscola ha ammantato di un’aura di solennità intrinsecamente coercitiva. In questo terreno di scambio minimale è ribaltata la condizione di superiorità di cui godono i referenti, attraverso il loro ruolo storico e il loro linguaggio corporeo, grazie alla forza di un negativo che si fa inclusivo nel connettere la sintassi di queste figurazioni a un testo più ampio, ancora da scriversi e impossibile da ultimare.
Sergio Lombardo
Dai Quadri ai Superquadri 1961-1966
Galleria 1/9unosunove, Roma 24 giugno – 25 settembre 2021