Per la tua esperienza di docente e curatore, quanto ritieni che le giovani generazioni siano sensibili all’utilizzo della pittura e, in particolare, dell’acrilico?
«Lo sono molto. La pittura gode di buona salute e i ragazzi la indagano molto dal punto di vista formale. Meno di un tempo vedo anche la necessità dell’uscita del quadro, che ora quando appare è sempre meno un’insicurezza quanto più un’indagine e una necessità. Mi sembra soprattutto che siano affascinati dalla ricerca della forma, cioè dal
bisogno di comprendere cosa sia necessario accada all’interno della forma. In altre parole dove un’immagine possa o debba andare. Penso purtroppo che un’epoca critica un po’ bislacca, orfana da molti anni dei migliori pensatori italiani della forma e dell’estetica, cerchi continuamente di non capire la reale profondità della composizione, continuando erroneamente a interrogare significati simbolici, giustificazioni, anti formalismi, e pagando, forse, una certa cattiva abitudine ad appoggiarsi su materie non percettive. Non è un rapporto concettuale con l’immagine pittorica quello che si instaura oggi, ma fisico, non si pensa ad un simbolo da aggiungere ad una composizione, ma ci si inzacchera gli occhi e le mani di linee e forme. In questo scenario l’acrilico è una sorta di pensiero veloce, meno meditato, più istintivo. Il colore genera l’immagine per regole interne e costruisce visione. Con qualche eccezione, l’acrilico lo si usa come si usa un ricordo veloce, una messa a punto, un appunto che non serve ad un nuovo sviluppo, bensì funziona in sé; come dire un quaderno o una poesia, una forma letteraria completa nella sua velocità».
Quali sono, sulla base della tua esperienza, le nuove tendenze della pittura contemporanea?
«Ve ne sono tante, ma non tantissime. Il rapporto forte, ho avuto voglia di pensare questi giorni, è con qualcosa che con Sartre definisco più imagerie, che non image o imaginaire. La differenza è nella sua impalpabilità. Si tratta di un’immagine che si genera parzialmente indistinta dall’indistinto del pensiero. Qualcosa che può apparire come
sognato o ricordato, al limite sedimentato dal ricordo stesso, forse un ricordo di nessuna epoca. Non è epoca di simbolismi, né di citazionismi. Sembra necessario, e nei fatti avviene spesso, portare la pittura a qualcosa di vivibile, ritornare alla sensazione. Inutile anche cercare narrazioni o appigli social culturali. Si fa strada nella pittura (e perfino nelle installazioni con certi raffinati attraversamenti) la ricerca di un’immagine “della sensazione”, di una presenza davanti alle cose, forse, ecco, solo al limite, ricordandone altre, percependosi guardatore-sognatore. Dal mondo reale si prende eccome, ma si tratta piuttosto di qualcosa di guardato, pensato o ricordato, ma lasciato andare. L’immagine, che siano linee concrete o una casa, porta con sé qualcosa che resta, che rimane quando non c’è più nulla, persistenza nella retina. Tolta la spettacolarizzazione continua di questo oggi non rimane, come si poteva pensare, un pensiero veloce. Invece davanti all’immagine ritorna la brughiera, la nebbia, il bosco, i giocatori di carte di Cezanne, una distesa di De Stael, forse, perché no, un supermercato, un fumetto, una serie tv. Tutto questo, in alcuni casi, si impasta alla composizione ma non ha più la distesa compatta e colorita del pop classico, neppure ne fa riferimento. Non è, alla fine, che visione della sensazione di essere vivi oggi, di essere sempre stati vivi, di non essere sicuri di esserlo».
Nell’utilizzo della materia, quanto conta la qualità della materia?
«Come ben sai io penso che la forma sia un contenuto. Nemmeno l’oggetto spesso racconta più, non nel senso classico che ci aspetteremo. Un legno non è un bosco o il ricordo di un albero ma è l’essere legno, la legnosità, il noumeno che parla del fenomeno solo in referenza. Tanto più c’è la possibilità che l’immagine abbia grumi, oli, resine, o fantasmi. Detto questo se sia in acrilico o non lo sia fa tutta la differenza del mondo. La tecnica lavora con la velocità o con la sedimentazione e con le proprietà della materia. Il fruitore completa il quadro, molto tempo a dipingere invita al molto tempo a guardare i dettagli, l’arrovellarsi e l’arrotolarsi del colore si snodano nei gesti compiuti davanti al
guardatore; d’altro canto poco tempo a schizzare e far volare i segni, invita ad una prima visione nel poco tempo per poi perdersi volando nei colori tenui o alti o bassi. Se il centro oggi è di nuovo la sensazione, l’esperire, la qualità della materia ancora di più conta tutto. Ne abbiamo persi di lavori per bassa qualità, né rendono, né brillano, né durano».
Cosa stimola i giovani a pitturare? In generale con gli studenti, cosa noti che li appassiona del linguaggio pittorico? E da quali esperienze passate sono solitamente più ispirati?
«Sono appassionati dal sentirsi dire che esiste la libertà formale e che la forma ha in se tutti i contenuti necessari. Sono appassionati dallo smettere di giustificarsi come colpevoli per ogni figura rappresentata e dal poterla portare verso un tempo di gestione, dalla libertà di aggiungere luce, di mettere senza (apparente) motivo (concettuale) un segno in
alto leggero, uno in basso pesante, un giallo che ti viene incontro, un grumo di colore per avere pastosità e dal portare questa indagine con libertà finalmente. Sono molto curiosi e la pittura che attrae di più mi sembra quella più libera e indagatrice, ma prendono dalle cose più disparate. A volte li vedi con sorpresa che indagano un Ottone Rosai, o che rispolverano Campigli o De Stael, o la luce di Turrell, o la materia in Kounellis (parlo dei pittori, Kounellis lo era nella visione). Non c’è la pazienza dei tocchi brevi di colore, non ci sono i citazionisti, né gli scompositori cubisti, non ci sono più molte cose. Piuttosto si tratta di quel qualcosa di liquido, come si liquefà senza certezze il nostro mondo, dentro al quale cercano una nuova possibilità di riscatto esperienziale. Un silenzio infine. I luoghi silenziosi meditativi e tenui attraggono più della città. Ma attenzione non è l’esotico, non è Gaugin, forse sono i Corvi di Van Gogh, ma di più è la
brughiera di Mandelli, quando non quella calorosa di Morlotti. Molto c’è di Morandi».
Cosa consiglieresti a un giovane pittore?
«Il coraggio e la curiosità. La presenza a se stessi. L’essere continuamente aggiornati per poi buttare la metà di queste informazioni nel dimenticatoio. L’indagare il segno e la pittura sapendo che è una grammatica, è linguaggio. Dunque procedere e fare esperienze di vita, perché serve all’uomo e al pittore insieme. Non mollate quando non riuscite, non c’è nulla in cui dover riuscire e non c’è niente da dimostrare, col tempo diventerà chiaro. Siate voi stessi, o è importante o non lo è, e se lo è ci tiene vivi e ci fa vivi in un oggi che insieme dobbiamo indagare. Infine il confronto. Ovviamente le occasioni come la residenza d’artista Just Imagine possono essere un luogo di messa in discussione e di proposta».
Da qualche mese insieme a Guido D’Angelo avete lanciato Kaspar Hauser, uno spazio di sperimentazione e ricerca dedicato proprio ai giovani artisti. Come sta andando questa esperienza?
«KH prevede un continuo coinvolgimento di giovani artisti ad allestire altri artisti e di giovani scrittori a parlarne. Come sta andando? Ritagliarsi uno spazio di esistenza con un progetto chiaro oggi non è difficile, i riscontri sono stati molto buoni e molte care persone si sono avvicinate. Intuisco però che la risposta vera alla domanda non può parlare né del successo, né soltanto del coinvolgimento. Il progetto è ambizioso “KH è un contenitore di Pensiero” abbiamo scritto dappertutto. Si tratta del tentativo disperato, improbo, e chissà forse un giorno diremo fallimentare di riportare le cose dove le abbiamo trovate: nell’esercizio della critica e del confronto. In questi pochi metri vogliamo creare una zona di pensiero. Nuovi scrittori e nuovi artisti, come dire nuovi pensatori dialettici e visivi, che si sforzano con noi di sviluppare un senso critico. Percepiamo la mostra non come un Greatest Hits, ma come un Concept Album. Bisogna anche parlare un pò di più in termini vecchi, cos’è una griglia, cos’è una cancellazione, come si guarda un quadro, come si attraversano una serie di oggetti. Vogliamo indagare i segni di un’esposizione, vedere lo spazio come luogo, appunto, “segnato”, spostato, ridefinito. Sono pronte nuove collaborazioni con altri spazi e luoghi di sperimentazione. Ovviamente senza questi passaggi di indagine e di ricerca la parola “laboratorio” non avrebbe senso».