Silvia Bordini
… guardai in avanti e, nella chiara striscia di luce di un pallido arancione, vidi profilarsi la terra piatta, come ritagliata da una carta nera: sembrava galleggiare sull’acqua, leggera come un sughero. Ma il sole che stava nascendo la trasformò in un semplice vapore scuro, in una greve e pesante ombra tremolante nella luce abbagliante.
(Joseph Conrad, La linea d’ombra)
Immaginate un’isola. Un’isola dell’Oceano Pacifico, nella zona tra il sud ovest del Giappone e il nord ovest delle Hawai, là dove si concentra la North Pacific Subtropical Gyre, una corrente che si muove a spirale in senso orario convogliando altre correnti da aree diverse dell’oceano su una superficie di 34 milioni di km2 . Il suo centro è noto come “Horse Latitude” (Latitudine dei Cavalli), luogo leggendario per la sua mancanza di vento e la calma piatta del mare che obbligava talvolta gli antichi galeoni spagnoli diretti nelle Americhe ad alleggerire il proprio carico, gettando in mare perfino i cavalli.
Ma il movimento del mare è l’unico elemento naturale di quest’isola; per tutto il resto essa è artificiale, un prodotto dell’azione dell’uomo come agente di trasformazione della natura. E’ una modificazione dell’ecosistema marino e del suo paesaggio, – intendendo come paesaggio la complessa dimensione fisica e culturale della percezione sensibile dei luoghi – determinata dalla logica dissipatoria della società dei consumi e dall’illimitato impiego di quel diffuso materiale tecnologico che è la plastica. Si tratta di un prodotto inintenzionale e collettivo, che ha dimensioni immense e conseguenze incontrollabili; quella che viene chiamata in tutte le lingue isola di plastica, isola che non c’è, settimo continente, Pacific Trash Vortex, Great Pacific Garbage Patch, Atlantide, continente sommerso, è un accumulo di miliardi di detriti e rifiuti proveniente dai litorali e dalle navi di tutto mondo. Dagli anni Cinquanta dello scorso secolo vi si concentrano non solo vari tipi di immondizia ma anche gli oggetti persi casualmente dai containers dei cargo e i rottami dei maremoti.1
Questa enorme discarica a cielo aperto è composta per l’80% di plastica e il restante 20% di materiali di varia natura. Mentre i detriti di natura biologica si decompongono gradualmente, la plastica non viene smaltita dall’acqua del mare; tonnellate di bottiglie, buste, rottami e i più vari oggetti e frammenti di oggetti di plastica si degradano per effetto della luce disintegrandosi in pezzi sempre più piccoli, fino a raggiungere la dimensione dei polimeri. Uno studio del 2001 ha calcolato che la concentrazione di plastica, in un miglio quadrato di quest’area dell’oceano, è pari a un milione di pezzi, con una massa di 5,1 milligrammi per metro quadro. In molte zone questa concentrazione è addirittura superiore a quella dello zooplancton, il principale nutrimento di molte specie animali. Più si disintegra, più la plastica entra nella catena alimentare causando danni irreparabili a tutto l’ecosistema.2
I detriti si estendono per centinaia di migliaia di km quadrati: 700.000 secondo alcuni, 10-15 milioni secondo altri che riferiscono di un’area vasta come Spagna e Portogallo messi assieme. Un totale di 3 milioni di tonnellate di pezzettini di plastica (o addirittura qualcuno ipotizza che raggiungano 100 milioni di tonnellate) che si addensa in un’immensa spirale per una profondità che arriva a 30 metri La miniaturizzazione della plastica in sospensione sotto la superficie dell’oceano impedisce ai satelliti di identificare e riprendere questa massa fluttuante. L’sola di plastica non ha una stesura compatta; è instabile, mobile, una poltiglia immensa ma impercepibile; l’unico modo per averne una percezione sensibile precisa è stare sul luogo con una nave. E difatti a partire dal 1997, quando Charles Moore3 scoprì casualmente il fenomeno, numerose sono le spedizioni scientifiche che si recano sul luogo per analizzare la distribuzione e la concentrazione della plastica, verificare e monitorare il loro impatto sulla vita marina, e per valutare la possibilità di una bonifica. Oceanografi e biologi cercano di definire le caratteristiche di questo enorme accumulo di detriti e di razionalizzare la sua percezione in termini scientifici, rettificando e spesso ridimensionando le informazioni di giornalisti e ambientalisti. Gli scienziati specificano che la massa di plastica non è calpestabile ma è mobile e fluttuante, che non è così immensa come si crede e che varie altre simili concentrazioni di rifiuti si trovano anche nell’Atlantico e nel Mediterraneo.4
Intanto la rete elettronica è diventa cassa di risonanza del fenomeno: si moltiplicano i siti che riprendono e si scambiano dati e divulgazioni; cresce l’allarme ambientalista, anche se in misura ridotta rispetto all’entità dell’inquinamento, forse per la sua inaccessibilità che limita una vera presa di coscienza del problema. Si enfatizza piuttosto, come in una sorta di fiction, la metafora dell’isola; ma pochissime sono le immagini, limitate a grafici e schemi delle correnti dell’oceano, con la segnalazione di ipotetiche localizzazioni e dimensioni. Le fotografie mostrano in genere pesci e uccelli morti con le viscere piene di frammenti di plastica, e generici dettagli sulla composizione dell’accumulo di frammenti di piccolissime dimensioni.
Ricorre tra gli articoli divulgativi e i siti web l’immagine di un uomo su una canoa che solca una superficie interamente coperta da pezzi di plastica galleggiante, bottiglie, sacchetti e svariati oggetti e frammenti, ma la foto, come afferma la ricercatrice Miriam Goldstein, è stata in realtà ripresa nel porto di Manila.5.
Perché di questo paesaggio marino profondamente modificato non ci sono immagini. L’isola di plastica è invisibile ai consueti strumenti di riproduzione, anche ai più sofisticati come quelli satellitari che, come gli scienziati ripetono, non registrano la sua massa traslucida, semisommersa e fluttuante. E’ come un’ombra instabile, una presenza terribilmente invasiva e destabilizzante; una realtà che modifica gli assetti naturali del mare ma nello stesso tempo è impercepibile e indefinibile. Un paradosso nell’orizzonte globalizzato in cui la comunicabilità mediale è parte dell’esistere; un rovesciamento di quell’impero della riproduzione e della riproducibilità – di immagini suoni e quant’altro – che è un marchio della nostra epoca.
Tuttavia proprio questa inafferrabilità attraverso i normali strumenti di visualizzazione ha enfatizzato la percezione questa zona di inquinamento immensa accostandola al concetto di isola. Non un’isola come approdo, punto fermo, ma un’isola che galleggia, che non si vede e non si tocca ma esiste, e che proprio per la sua natura sfuggente e artificiale è dotata di un sovrastante potere di sollecitazione dell’immaginario. Non a caso alcune elaborazioni vengono da alcuni artisti che, con la sensibilità vagamente surreale propria del pensiero creativo – e anche con una sorta di innocente e perverso cinismo – scavalcano la dimensione terrifica del disastro ambientale che cresce nelle acque del mare, coniugano denuncia e esorcizzazione, razionalizzazione e utopia, e si proiettano su scenari che fanno riferimento alle pratiche del riuso e del riciclo. Lavorando, inoltre, sulla ripresa del tema dell’isola galleggiante già esplorato da artisti attenti alle fenomenologia del naturale come Robert Smithson (Floating Island to travel around Manhattan Isle, progettata nel 1970 e realizzata postuma nel 2005), o come Voyage (2008), performance e video di Antti Laitinen.
Qualche esempio. L’artista inglese Richart Sowa ha costruito un’isola assemblando 250.000 bottiglie di plastica che sorreggono una piattaforma di compensato e bambù di 20 m. per 16. È la Spiral Island, esplicitamente ispirata alle strutture land art di Robert Smithson; realizzata nel 1998, distrutta da un uragano nel 2005, ricostruita, ancorata nelle acque del Mar dei Caraibi presso la Isla des Mujeres, e divenuta ormai anche un’attrazione turistica.6 Sulla sua superficie Richart Sowa vive con il suo cane, gatti e galline in un’abitazione circondata da mangrovie sui bordi di un laghetto con una cascata alimentata da un panello solare; un microcosmo modellato su alcuni diffusi stereotipi culturali – da Robinson Crusoe all’idillio di stampo ecologico – riletti in chiave di tecnologia sostenibile.
Più ambizioso e in fondo più utopico il progetto Recyckled Island dell’architetto olandese Ramon Knoester dello studio WhimArchitects: ispirata al motto REfuge, REduce, REuse, REcycle la proposta va a toccare, non senza una certa dose di presunzione visionaria, i temi scottanti dell’inquinamento, del riciclo della plastica, dell’innalzamento del livello del mare, dell’abitare sostenibile. La Recyckled Island dovrebbe collocarsi su un’area di 10.000 km quadrati, costruita con 44 milioni di kg di rifiuti dell’isola di plastica del Pacifico, debitamente trattati in modo da costituire la base di una complessa struttura completamente autosufficiente e sostenibile capace di ospitare mezzo milioni di abitanti. La plastica riciclata secondo speciali tecnologie deve fornire anche il materiale per le abitazioni, i negozi e gli edifici pubblici, mentre la coltivazione di alghe marine provvederà alla produzione di cibo, di fertilizzanti e bio-carburanti: fonti di energia saranno l’eolico e il solare. Dal punto di vista della planimetria lo schema proposto da Knoester riprende quello della città ideale, divisa in settori votati alle varie attività che si irradiano da un nucleo centrale; gli edifici si snodano lungo le acque di un complesso sistema di canalizzazione. Recyckled Island (di cui per il momento lo studio WhimArchitects sta cercando di realizzare un prototipo) sarà un’isola galleggiante e fluttuante, senza però andare alla deriva, grazie ad un attento ed equilibrato collocamento rispetto alle correnti oceaniche.7
Una posizione diversa, orientata più direttamente sulla denuncia del disastro ambientale evidenziato dell’isola di plastica, è quella espressa recentemente da Giuliano Ravazzini: un artista attivo in azioni sulla natura e con la natura, che da anni si tiene lontano da gallerie e musei rivolgendo la sua attenzione alla terra e seminando cicorie nei giardini di tutto il mondo. In occasione della Biennale di Venezia del 2009 ha presentato Pacific Trash Vortex, un lavoro connotato da istanze ecologiche e definito ironicamente dallo stesso Ravazzini un’opera site pacific, parodiando il termine site specific. L’opera consiste in un grande pannello con la visualizzazione planimetrica dell’isola di plastica nell’Oceano Pacifico; l’immagine era collocata nei Giardini della Biennale ma ha avuto una diffusione molto più ampia, sia con un certo numero di affissioni nella città sia, sia e soprattutto inserendosi nel web attraverso 530.000 indirizzi e-mail.8
Più spettacolare il lavoro di Daniel Canogar che nel 2011 ha presentato una mostra dal titolo Vòrtices (Fundaciòn Canal, Madrid, a cura di George Stolz), composta da 6 installazioni che denunciano il disastro ambientale del Great Pacific Garbage Vortex.9 Elemento centrale è un grande murale fotografico in cui appaiono delle figure umane che fluttuano nell’acqua in mezzo a cumuli di residui di plastica; prese dall’alto queste immagini raccontano una drammatica lotta per la sopravvivenza.
Cosa dedurre da tutto ciò? Che questi artisti sono degli sventati che buttano altra plastica nel mare, come Sowa, o che aderiscono all’ideologia del sostenibile e dell’ecologico, cercando di trasformare questo mostro dei nostri tempi in una utopia? O forse vuol dire che gli artisti sono sensori sensibili del presente e in qualche misura attori di una denuncia? Nel contesto, comunque, di una tendenza generalmente e genericamente diffusa da qualche tempo che vede artisti (e curatori) insistere sul tema del rapporto tra natura e cultura nei termini allarmanti del degrado ambientale10. Tra impegno, moda e strumentalizzazione.
Note