Olio su carta – cm 50×40 – 2017
Si parte sempre dalla figura umana. Marco Colazzo ha esplorato la geografia di questo mistero di carne prima dal punto di vista concettuale e poi dal punto di vista pittorico. Un corpo sempre frammentato, o meglio un corpo che è frammento, nell’impossibilità di un’integrazione totale che faccia risuonare l’armonia delle parti nell’evidenza di un intero. La sfida di ogni artista di confrontarsi con un’alterità in questo percorso artistico mostra tutta la complessa gamma di variazioni, tutta la difficoltà a restituire questa tensione radicale verso un altro che è necessariamente un estraneo e quindi una minaccia, almeno a un primo livello. Nella serie dei “pupazzi”, che l’artista ha realizzato fra il 2004 e il 2010, altro suo soggetto d’elezione, questi sembrano assumere un ruolo di rilievo in tale narrazione. Come una sorta di oggetto transizionale dialogano con l’oggetto parziale del corpo smembrato, e prefigurano quell’incontro col diverso come intero e come umano, un faccia a faccia definitivo.
Ma la poetica di Colazzo è mutata sensibilmente nelle sue ultime opere. I soggetti figurativi sono scomparsi, o meglio, il fare grafico e gestuale si è evoluto e ha assorbito e tradotto l’elemento rappresentativo, temprandosi nella maturazione di questa nuova consapevolezza. Il corpo – topos della sua ricerca – perennemente disperso in scenari solitari, ora non c’è più, è rimasto solo un campo, dove si scontrano delle forze. Si tratta di una forma di essenzializzazione, ma non di una trovata minimalista. L’economicità e praticità dei mezzi ha esteso i luoghi della sua applicazione, ha permesso a queste immagini di prodursi in contesti e momenti altri, acquisendo una nuova forma di libertà, di integrazione con lo spazio fisico e psichico. Le tele adesso sono degli schermi su cui scivola la materia, liquida, della pittura; un flusso che fa del proprio movimento ondivago la ragione stessa del proprio divenire. Raccoglimento? Contemplazione? Un pensiero pittorico che si espande, che nella circolarità di questo andamento fluido e inesorabile ritorna su se stesso senza mai convergere completamente, senza mai rispecchiarsi in un identità.
Tutto accade su un medesimo piano, nell’atto stesso di una prima stesura – l’evento – che diventa l’unica chance per una traccia di memoria di apparire, di figurarsi, e con essa contemplare il rischio della propria estinzione (basta poco per cancellare, lavare via, il dipinto e ricominciare daccapo). Immagini vaghe, come particelle sospese in una visione appannata, riamando a panorami interiori che forse resteranno per sempre irraggiungibili, sicuramente irrappresentabili. Da una difficoltà si passa ad un’altra. La scissione che interessava la figurazione del corpo umano adesso è diventata un fuori fuoco: le parti prima non si univano nell’impossibilità di un incastro, mentre ora è lo sguardo che non riesce a focalizzare questo processo di visione, provato dalla troppa intensità.
Quello che l’artista compie in questo percorso di scavo nell’indistinto, di esteriorizzazione di questa nebbia vaporosa, è un viaggio all’indietro ai primordi della coscienza. Non si tratta di una fuga nostalgica verso l’infanzia, ma del recupero di qualcosa più fondamentale che vive ancora in noi in forme astratte. La pittura ad olio è materia viva, e la gestualità imprime alla chimica del suo movimento interno la vitalità di una forma di esistenza germinale, che rimanda sia alla calda umidità dello spazio uterino che all’habitat dei primi microrganismi, creature embrionali in stadi oscuri della storia umana di cui si è perso memoria. Questo raccoglimento melanconico è un pensiero introverso che si ripensa nell’atto di rappresentarsi, discioglie la rappresentazione che viene a sua volta assorbita dalla pennellata come in un’onda che avvolge e libera la tensione senza mai esaurirla, anzi, restituendola in composizioni fitomorfe che si tendono duramente sulla superficie pittorica come le rovine di questo conflitto. La figurazione liquida sui profili di questa vegetazione metaforica si rapprende come rugiada, un intreccio di figura e fondo che si presenta sul medesimo piano. Tuttavia, questo immaginario non evoca né il mare né l’oceano, bensì luoghi di frontiera, paesaggi senza nome ma non per questo anonimi, terreni dimenticati pregni di una carica sorgiva come imbevuti d’acqua dopo un temporale estivo.
Ma c’è un ulteriore elemento che interagisce con l’acqua e la terra: la luce. Il bagliore del ricordo indistinto dialoga con la luce naturale, in dialettica con la sua presenza oggettiva. Le pennellate che si sciolgono insieme al colore intercettano squarci luminosi, che a sua volta si fanno liquidi seguendo la diagonale del proprio irradiarsi, come un riflesso del sole rappreso nel baluginare di un istante di chiarore che subito si stempera in un’atmosfera torbida e lacustre, una superficie fluida e specchiante satura di sensazioni effimere. Queste visioni sono ricordi, come si diceva, ma non sono mediati attraverso la pittura, essi sorgono precisamente grazie alla pittura. Verrebbe da citare Konrad Fiedler che nel suo formalismo rivendicava il ruolo centrale dell’arte per l’osservazione del reale, o come l’esteta Oscar Wilde, quando dice che non è l’arte ad imitare la natura bensì il contrario. Colazzo nel suo lungo percorso artistico esprime questa complessità intellettuale, e lo fa con la rigorosa incoscienza di un sogno.